Come noto la maggior parte dei divieti e delle sanzioni di questi giorni sono state promulgate per decreto del Presidente del Consiglio (gli oramai noti DPCM).
Sulla loro validità, anche e soprattutto alla luce della nostra carta costituzionale, tanto si è detto.
I dubbi devono aver assalito anche chi si trova nella stanza del potere tanto è vero che i DPCM hanno ceduto il passo al più famoso decreto legge. A dire la verità quest’ultima forma è stata utilizzata più “a sanatoria “di tutte le precedenti prescrizioni, che non per dare nuove indicazioni.
Ad ogni modo, anche il decreto legge non risulta essere atto autonomo di per sé ma necessita di un passaggio in Parlamento per poter essere convertito in legge. Vista la particolare situazione, è ipotizzabile che tutti questi atti atterreranno in Parlamento in blocco. Diverrà, così, legge sia il divieto più stringente del mese di marzo sia quello più morbido del mese di maggio.
Sul fronte giudiziario, parallelamente, persiste una sospensione ( che – ad oggi – dovrebbe durare fino al giorno 11 maggio) di tutti i termini.
Cosa significa? Significa che dal giorno 9 del mese di marzo al giorno 11 del mese di maggio è come se si fosse bloccato tutto con un congelamento del conteggio di ogni singolo giorno utile: sia di quelli in corso sia di quelli nuovi.
In questa sospensione si inseriscono anche le sanzioni elevate per il covid-19: dai termini connessi al pagamento (anche ridotto nei 5 giorni) delle multe, alla contestazione formale da parte del Prefetto. Anche in questo caso appare ipotizzabile un invio “massivo” delle sanzioni – anche diverse – nello stesso momento.
È a questo punto che si apre un dubbio giuridico.
Nel diritto penale vige il criterio della retroattività della legge penale favorevole al reo: il comma 2 dell’articolo 2 del codice penale sancisce <<Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato>>. Ma tale principio è applicabile anche in sede di sanzione amministrativa?
L’orientamento definito “granitico” della giurisprudenza che negava una siffatta possibilità, è stato superato con la sentenza del 21 marzo 2019, n. 63, della Corte Costituzionale (Pres. Lattanzi, Red. Viganò) con la quale viene ribadito il principio che “non sarebbe ragionevole punire (o continuare a punire più gravemente) una persona per un fatto che, secondo la legge posteriore, chiunque altro può impunemente commettere (o per il quale è prevista una pena più lieve)” (sentenza n. 236 del 2011).
Insomma, una ulteriore “questione” che rischia di colpire una materia assai delicata gestita, quantomeno da un punto di vista di diritto, in maniera non del tutto lineare.