Già con il lockdown di marzo, diversi furono gli interrogativi che vennero posti in ordine alla legittimità o meno delle limitazioni alla libertà personale posta in essere – di fatto – con un atto amministrativo quale risulta essere, ad oggi, il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri.

Numerose, non solo in quel periodo, furono le multe elevate in capo ai trasgressori, alcune delle quali iniziarono l’iter giudiziario. Tra questi, per gli addetti ai lavori, particolare interesse ha suscitato quello conclusosi con sentenza 516/20 del Giudice di Pace di Frosinone nella quale viene compiuta una esatta ricostruzione in punto di diritto della intera fattispecie giuridica e dei diversi antefatti sfociati, poi, nei provvedimenti restrittivi.

In buona sostanza il GdP di Frosinone, con una motivazione di cui diremo appresso, stabiliva o, meglio, certificava che nell’ordinamento giuridico italiano non esiste una fonte normativa di rango costituzionale o avente forza di legge ordinaria che consenta di dichiarare lo stato di emergenza per rischio sanitario. Su tali premesse, quindi, la deliberazione dello stato di emergenza del 31.1.2020 doveva essere dichiarata illegittima e, con essa, anche tutte le sanzioni inflitte.

Per arrivare a tale conclusione, però, il Giudicante partiva dalla circostanza che la deliberazione dello stato di emergenza del 31.01.2020, era stata adottata facendo riferimento al “rischio sanitario derivante da agenti virali trasmissibili”, sulla scorta degli artt. 7, comma 1, lettera c) e 24, comma 1, del decreto legislativo 2 gennaio 2018, n. 1.

Le disposizioni normative richiamate, osservava il Giudice, non contemplano come eventi di protezione civile situazioni di rischio sanitario da agenti virali ma eventi calamitosi di origine naturale (terremoti, valanghe, alluvioni ecc ) o derivanti dall’attività dell’uomo (sversamenti, attività umane inquinanti ed altri).

L’unica ipotesi costituzionalmente prevista di attribuzione al Governo di poteri normativi peculiari, rimane quella di cui agli artt. 78 e 87 relativa alla dichiarazione dello stato di guerra.

Il Giudice di Pace di Frosinone, poi, rigettava le avverse deduzioni secondo le quali i DPCM avevano trovato copertura nei successivi decreti legge in quanto, come da più autorevole dottrina (Cassese), la previsione di norme generali ed astratte, limitative di fondamentali diritti costituzionali, fosse contraria alla Costituzione.

Sulla scorta, quindi, di tal argomentazioni il Giudice concludeva per la illegittimità della delibera del 31.01.2020 in quanto atto di alta amministrazione, soggetta al principio di legalità ed emessa in assenza di fonte normativa attributiva di tale potere.

Come noto lo stato di emergenza, che scadeva il 29 luglio 2020, veniva prorogato una prima volta fino al 15 ottobre 2020 (in GU serie generale n. 190 del 30.07.2020) ed una seconda volta fino al 31 gennaio 2021 (in GU Serie Generale n. 248 del 7.10.2020).

Le predette proroghe – in quanti tali – altro non sono se non una mera estensione temporale di quella del 31 gennaio 2020 con tutte quelle incongruenze esposte nella suesposta sentenza.

Il quesito che oggi ci si pone è se in forza del richiamato atto di “alta amministrazione” (illegittimo per come visto), potevano e possono esser disposte limitazioni alla libera estrinsecazione della vita di ogni singolo cittadino.

In poche parole: la chiusura di determinate attività commerciali, di attività produttive di reddito, può esser disposta in forza del medesimo atto? Rientrano tra quei diritti costituzionalmente garantiti?

A tale ultima domanda arriva in soccorso l’articolo 4 della Costituzione che recita:

La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.

Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

La carta costituzionale, quindi, non solo lo riconosce come un diritto ma addirittura come un dovere, quello di lavorare.

Già questo basterebbe per dichiarare l’illegittimità delle eventuali sanzioni che dovessero venire elevate a quei gestori che decidessero di restare aperti nonostante le limitazioni imposte.

Ma, sembra, esserci di più.

Con decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito poi dalla legge 4 agosto 2006, n. 248 (meglio conosciuto come decreto Bersani – Catricalà sulle liberalizzazioni), si è dato vita ad una vera e propria apertura sul fronte del commercio eliminando anche quegli ultimi vincoli e restrizioni che fornivano, di fatto, una rendita per chi risultava esser già presente sul mercato.

Il famoso “valore economico” della licenza di vendita derivante da una chiusura sul mercato, ad esempio, di colpo è venuto meno non essendo più necessaria alcuna autorizzazione per l’apertura di esercizi commerciali bastando una semplice SCIA per dare avvio all’attività.

Il controllo sarà successivo da parte degli uffici ed organi di controllo a ciò preposti che, entro 60 giorni dal ricevimento, dovrà verificare il possesso e la veridicità dei requisiti dichiarati, adottando, in caso negativo, i dovuti provvedimenti per richiedere la conformazione dell’attività oppure, qualora ciò non sia possibile, vietare la prosecuzione dell’attività e sanzionare, se necessario, l’imprenditore che si fosse reso responsabile delle dichiarazioni mendaci.

E qui torniamo al punto.

Il D.P.C.M. 24.10.2020, oltre a “sospendere” determinati servizi, alla lettera ee), contrariamente a tutto quanto sopra esposto, viene a “consentire” un orario di apertura particolarmente ridotto con ciò snaturando il senso della normatva vigente.

Soprattutto, nel momento in cui l’attività rispetta i requisiti sia per l’apertura sia per la continuazione all’esercizio (uniformandosi a quelle prescrizioni, chiamiamole igienico – sanitarie per proseguire con l’attività), con quale potere viene inibito il diritto costituzionale esercitato mediante esatto adempimento alle norme di legge?

Quale norma può restringere l’orario di apertura e, quindi, la libera esplicazione di quel diritto dovere di cui all’art. 4 della Costituzione anche per come esteso seguendo le indicazioni volute con la riforma dell’art. V della stessa costituzione?

Al più potrebbe spettare ai Comuni disporre la chiusura per le singole attività ma solo in caso di assenza dei requisiti sanitari che potrebbero derivare da un’assenza di dispositivi di sicurezza o dall’esplosione di focolai che necessitano di sanificazione degli ambienti.

Dovrebbe essere il Comune, quindi, e non il Governo a sanzionare con la chiusura non la genericità delle attività ma la singola inadempiente.